martedì 10 giugno 2008

Intervista ad Umberto Croppi

Premessa: quando l'ho ascoltato per la prima volta, pensavo che fosse comunista. Poi, nel tempo, mi sono convinto: è comunista per davvero. Non quequero come quelli di nostra conoscenza, ma uno che sa fondere assieme D'Annunzio e Guevara, l'ecologismo con il futurismo e il culto della velocità, il Tibet con il mito dell'Europa dei popoli, Tolkien con l'eurasia e i valori spirituali con i campi hobbit di cui fu ispiratore e dei quali in molti hanno tanta nostalgia. Insomma un comunista interessante. Oggi Croppi fa l'assessore alla cultura per Alemanno.


Umberto, dicono di te che sei il fascista più comunista del dopoguerra.
«Per me, ma anche per molti altri, il Msi è stata un’esperienza di sinistra».

Con tutta la buona volontà...
«L’elettorato era di destra ma quasi nessuno di noi si considerava di destra».

Quasi nessuno chi?
«Perfino quelli più reazionari. Hai tempo?».

Quanto ne vuoi.
«L’Msi nacque proprio perché la Dc temeva una frana a sinistra dei giovani di Salò. Alcuni, come Stanis Ruinas, che aveva fondato la rivista Pensiero nazionale, erano addirittura finanziati dal Pci di Togliatti. La Dc, per porre rimedio, concordò con i vertici in latitanza della Repubblica di Salò la nascita di un partito che li raccogliesse».

Il Msi... un partito di sinistra... fondato dalla Dc...
«I vertici dell’Msi sapevano benissimo che i voti dovevano prenderli a destra. Un caso di schizofrenia. Ti ricordi la corrente di Almirante? Si chiamava “Sinistra Nazionale”».

I più di sinistra chi erano?
«Un esempio: Beppe Niccolai. Era proprio comunista. Un comunista che aveva aderito al fascismo. Il suo archivio era per metà annate di pubblicazioni di sovietologia. Al congresso del Msi del 1984 iniziò citando Lenin e finì citando Mao. Nessuno se ne accorse. Fu espulso dal Msi perché in una direzione nazionale aveva fatto approvare un ordine del giorno di condanna dei potentati economici approvato dal comitato centrale del Pci la settimana prima. Alla scuola di formazione del Msi studiavamo il modello dell’impresa proprietaria, l’abolizione della proprietà dell’azienda, gli operai che diventano padroni. Quelli come me, e ce ne erano tanti, Almirante li chiamava “castristi”: per le barbe e i capelli lunghi ma soprattutto per quello che dicevano».

Non facevate prima ad entrare nel Pci?
«Ero ben documentato sull’argomento. Mio padre, ex repubblichino, per i miei diciotto anni, mi aveva regalato il Capitale di Carlo Marx. Che ovviamente non ho mai letto. Però avevo letto il Manifesto e gli scritti giovanili di Marx, le tesi su Feuerbach. Ma non ero comunista, né marxista».

Però...
«Però anche esteticamente vestivamo come la sinistra, sembravamo dei punkabbestia e di nascosto coltivavamo la passione per il rock. Perfino Buontempo portava l’eskimo».

Quelli di sinistra ce l’avevano comunque con voi.
«A Valle Giulia gli scontri degli studenti del febbraio ‘68 contro la polizia erano guidati dai fascisti. C’è un famoso poster, molto popolare a sinistra, in cui si vede la prima fila dei manifestanti: sono Stefano Delle Chiaie, Guido Paglia, Franco Papitto. La contrapposizione, i pestaggi, gli omicidi vennero poi. All’università mi candidai nella lista del Fuan. Il giorno del voto una cinquantina di ragazzi mi massacrarono di botte. Al consiglio di facoltà, dove ero stato eletto, persino una persona moderata come il professore Stefano Rodotà chiese la mia espulsione perché “complice degli stupratori del Circeo”».

Non avevate «come si diceva» agibilità politica. E subivate la cosiddetta egemonia culturale della sinistra.
«La storia del ghetto culturale è una scemata che ci siamo cuciti addosso da soli. Ha ragione Gasparri quando dice che Sergio Caputo per avere successo è dovuto andare a sinistra. E sai perché? Perché a destra non gli davano spazio. Qualcuno mi dovrebbe elencare i soggetti respinti da un produttore perché proposti da uno di destra. Fatemi il caso di un libro di qualità rifiutato da un editore perché scritto da un fascista».

Ti piaceva Almirante?
«Lo odiavo. Me ne vergogno ma è così. Però era un uomo coraggioso. Andava a fare comizi in posti impossibili, sempre senza scorta, sulla sua 126. Ogni tanto la rovesciavano con lui dentro».

Tu avevi il mito dello scontro fisico?
«Ho sempre avuto repulsione fisica per la violenza. Il massimo è stato qualche sasso contro la polizia. La fama di picchiatore mi ha forse salvato la pelle. In molte occasioni, di fronte a gruppi ostili, mi ha salvato il sospetto che avessi una pistola in tasca».

Avevi la pistola in tasca?
«No. Nel momento del massimo terrore ne comprai una per tenerla in casa, vivevo isolato in campagna. Non ho mai nemmeno provato se funzionava. Dopo due mesi l’ho buttata in una fogna».

Gli altri giravano armati?
«La paura era tanta. Una volta andai a trovare un amico e mi aprì la mamma con la pistola in mano. Una famiglia della buona borghesia romana».

Avete mai pensato che fosse ridicolo azzannarvi fra voi senza nessun reale motivo?
«È questo il punto. Gli opposti estremismi sono un’invenzione della Dc. L’antifascismo non era una cultura diffusa. Negli anni Sessanta mio padre veniva invitato a parlare, in quanto fascista, ai dibattiti pubblici del Pci. Ma quando Almirante iniziò la defascistizzazione del Msi, abolendo gagliardetti e saluti romani, la Dc cominciò a preoccuparsi e a fargli terra bruciata intorno. E tutto degenerò. In consiglio comunale a Milano la notizia della morte di Ramelli fu accolta da un applauso. E i parroci non davano le chiese per fare il funerale. Il clima era quello e il mandante era la Dc che aveva messo in atto una strategia che gli era sfuggita di mano».

Bastava capirlo e defilarsi.
«Mi sono trovato la porta chiusa. Me ne sarei andato cento volte, ma dove andavo?».

Tu sei fascista?
«In vita mia non ho mai utilizzato vocaboli del fascismo. Non ho mai detto camerata, se non per gioco. Le mie circolari cominciavano con “Cari Amici”. Non ho mai portato una camicia nera. Non ho mai avuto un ritratto del Duce in casa. Non ho mai fatto il saluto romano».

Concludendo?
«Nei primi anni mi sono sentito fascista. Ma non ho mai pensato che si potessero recuperare il nucleo di pensiero né le forme statuali del fascismo che c’era stato».

Per chi voti?
«Appartengo a quella schiera di quattro milioni di italiani che scelgono ogni volta. Sono stato tra i fondatori della Rete di Leoluca Orlando. Quello più assatanato nel tentativo di espellermi perché ero fascista era Claudio Bucci. Che poi è andato con Forza Italia. E Rino Piscitello, ex Democrazia Proletaria, che patrocinava la cordata antirutelliana contro di me, adesso è uno dei più stretti collaboratori di Rutelli. Ha fatto anche l’uomo di Di Pietro salvo poi contribuire a farlo fuori nei Democratici».

Hai votato per la Rete. E poi?
«Sono stato consigliere regionale per i Verdi. Ho partecipato alla fondazione dei Democratici. Ma con loro sono stato poco. Venivo da una scuola di democrazia troppo alta, quella dell’Msi, per stare là».

Perché hai scelto il fascismo?
«Avevo un papà fascista, ex repubblichino, in realtà anarchico di sinistra, grande affabulatore, una cultura straordinaria, leggeva quattro libri per notte. A casa nostra si respirava libertà. Non c’era nemmeno la chiave nella serratura. Poteva entrare chiunque e uscire chiunque. Quando mi parlavano del fascismo come il male assoluto io pensavo: “Ma che dicono? Mio padre è la persona più buona e più colta che io conosca”».

I tuoi miti giovanili?
«Mishima, Kerouac».

Il poster della tua stanza?
«Il capo indiano Nuvola Rossa, e il manifesto della destra americana contro Kennedy, “Wanted for treason”».

Antikennediano?
«Rinnego i motivi di allora, ma mi resta una certa antipatia».

La musica?
«Il primissimo De Andrè. Poi Battisti. Poi i grandi gruppi americani e inglesi, i Santana, i Deep Purple. Poi Battiato».

Mito della destra.
«Battiato è uno dei grandi bluff situazionisti della mia vita. Fui io che alimentai la leggenda che fosse fascista, leggenda nella quale lui alla fine si è riconosciuto volentieri».

L’altra beffa fu la cacciata di Lama dall’università.
«Il vero autore della beffa fu Biagio Cacciola. Fece un comunicato dicendo che avevano partecipato anche i fascisti. Il Settimanale gli fece una grande intervista. Anche Mario Pirani cadde nel trabocchetto. Oggi la partecipazione dei fascisti alla cacciata di Lama è verità storica. Ci crede perfino Cacciola. Non riesco più a convincerlo che non era vero».

Letture?
«Il mio libro di formazione, da bambino, era l’Iliade. Niente buoni, niente cattivi. Tutti eroi. Nel duello tra Achille e Ettore parteggiavo per tutti e due».

Hai avuto amori all’interno del Msi?
«Ho sempre evitato. E alla fine ho sposato un’americana».

E Bruno Vespa non l’ha mai chiamata a parlare dell’11 settembre?
«Io sono convinto che l’attentato alle Torri se lo siano fatti fare. Ma mia moglie pensa addirittura che se lo siano fatti da soli. Non piacerebbe a Vespa».

Uno dei primi a «sdoganarvi» fu Cacciari che accettò di dibattere in pubblico con voi.
«E fu insultato da tutti i suoi amici, quelli che oggi sono finiti in Forza Italia. Ferdinando Adornato in testa (oggi passato nell'Udc, ndr...)».

Il problema dei voltagabbana.
«Io non ce l’ho con chi cambia idea».

Tu l’hai fatto molte volte.
«Ma questi riscrivono le loro biografie. Adornato ricorda di aver scritto che Berlusconi era il nemico in quanto non liberale?».

Altri voltagabbana?
«Il nipote di Andreotti, Luca Danese, eletto con Forza Italia nel 1996, saltato sul carro dell’Ulivo per un posto da sottosegretario».

Tu sei un voltagabbana?
«Ho cambiato parte, ma andando con chi perdeva».

Volendo, avresti fatto carriera nel Msi?
«Quando me ne sono andato ero ai vertici del partito. Se mi fossi candidato alle politiche sarei stato eletto».

Ti sarebbe piaciuto fare il ministro?
«L’avrei fatto bene».

Adesso, editore stimato, sei entrato nei salotti buoni?
«Non mi ha ancora invitato la signora Angiolillo».

Chi sono secondo te i politici emergenti?
«Un grande emergente era Cofferati. Ma appena emerso si è ricacciato sotto. Se l’è giocata malissimo. Poteva fare ciò che voleva. Non ha dimostrato grinta. Doveva mettersi in gioco, rischiare. Da emergente a bollito».

Altri bolliti?
«Di Pietro, portabandiera della negatività tra i politici. Diliberto, Buttiglione, Schifani».

Hai mai urlato slogan di cui ti sei pentito?
«Scrissi un manifesto: “Con i comunisti non si discute, si combatte”. Me ne pentii subito».

E nei cortei?
«Strillavo: “Cile, Cile, Argentina, l’Italia come l’America Latina”. Idiozie».

Nemici, risse?
«Con Fini c’è stato qualche momento di tensione. Con Almirante scontri veri. Da giovane aggredii, verbalmente, Giulio Andreotti, sul sagrato della cattedrale di Palestrina».

Gioco della torre. Mughini o Guerri?
«Mughini mi è diventato amico quando era difficile dichiararsi amico di un fascista».

Mastella o Cirino Pomicino?
«Cirino Pomicino è entrato nella storia. È stato il mostro nella stagione di Tangentopoli e oggi si consente il lusso di passare da una parte all’altra. È un gigante».

Ha dato il via alla transumanza. Chi lo seguirà?
«De Michelis e l’abruzzese Rocco Salini di Forza Italia».

Santanchè o Mussolini?
«La Mussolini è un grande equivoco politico dovuto a quegli incauti che nel ’93 la candidarono perché si chiamava Mussolini. Ora si lamentano perché si chiama Mussolini».

1 commento: