Si è aperta a Washington l’annuale conferenza dell’AIPAC - American Israeli Public affair Committee, la Lobby - ed hanno voluto esserci tutti, ma proprio tutti quelli che contano. I tre candidati presidenziali al completo, il segretario di Stato Condy Rice, la moglie di Dick Cheney, Lynne, Nancy Pelosi, quasi tutti i senatori USA. E altri 7 mila pezzi grossi in politica e nelle università, nei media o negli affari, ebrei e non ebrei. Una convocazione plenaria che è una inequivoca manifestazione di potenza.
La dimostrazione trionfale di ciò che i professori Walt e Mearsheimer hanno scritto nel loro saggio «The Israeli Lobby and US Foreign Policy»: non una conventicola, ma «una coalizione potente di individui ed organizzazioni che lavorano senza posa per muovere la politica USA nella direzione voluta da Israele». E’ grazie all’incessante opera dell’AIPAC che, hanno detto i due professori, «chiunque critichi le azioni israeliane o sostenga che gruppi filo-israeliani hanno una notevole influenza sulla politica USA verso il Medio Oriente vengono etichettati come antisemiti».
E chi vuol farsi etichettare come antisemita? Non certo i tre candidati. McCain apre la conferenza AIPAC: è chiaramente il preferito della lobby, da quando ha canterellato «Bomb, bomb, bomb Iran». I due democratici la chiuderanno. Obama dovrà recuperare l’imprudenza di aver alluso alle «sofferenze» dei palestinesi, e di essersi detto pronto a parlare con Teheran.
Hillary ha già dato tutto quel che poteva dare: a marzo, in una riunione AIPAC a New York, ha espresso i suoi sentimenti con queste sobrie parole: «Israele è un faro di tutto ciò che è giusto fra vicini ottenebrati da tutto ciò che è male, radicalismo, estremismo, dispotismo e terrorismo». Aveva anche giurato di «annichilire l’Iran». Si noti che un anno fa, anche Hillary s’era detta pronta a sedersi al tavolo di trattative con Teheran. Ed anni prima, era a favore di uno Stato palestinese.
Come spiegare questo potere di conversione dell’AIPAC? L’organizzazione, fondata nel 1951 (allora si chiamava American Zionist Committee for Public affairs) ha oggi 150 dipendenti e 60 milioni di dollari di bilancio. E’ in stretto collegamento con una rete di think-tanks: dalla JINSA (Jewish Institute for National Secureity Affairs) all’American Enterprise, dal Washington Institute for Near East Policy, al Middle East Forum, dal Center for Security Policy, al Project for a New american Century (PNAC) - e questi diffondono le vedute di Israele sul Medio Oriente presso i media e presso il governo.
Non va dimenticato che membri del PNAC e dell’Americam Enterprise, Richard Perle, Douglas Feith, David Wurmser ed altri, hanno emanato il documento «A Clean Break» - che propugnò un «taglio netto» con la politica soffice di Bill Clinton verso i palestinesi e indicò la linea per il futuro indurimento adottato da Bush jr, nonchè il famigerato «Rebuilding the american Defense», dove si augurava «una nuova Pearl Harbor» per convincere gli americani ad aprire una stagione di guerre per Sion. Feith, come Wollfowitz e Perle, sono membri del PNAC e sono stati viceministri al Pentagono nel settembre 2001, quando avvenne la «nuova Pearl Harbor» . Ma questo è ancora nulla.
Secondo il Washington Post, ciascuno dei membri e soci dell’AIPAC dal 2002 al 2004 ha versato 72 mila dollari in contributi a deputati e senatori in campagna elettorale. Ancor più grosso è il fiume di denaro che l’AIPAC riesce a mobilitare da parte di potenti «donatori» ebrei come contributi alle campagne elettorali. Per contro, chiunque osi criticare Israele impara a proprie spese: non riceve fondi da nessuno, non viene più rieletto.
Non c’è da stupirrsi che ogni membro del Congresso riceve e divora la lettera informativa bisettimanale dell’AIPAC e, come hanno detto Walt e Mearsheimer, i membri del Congresso e il loro staff «si rivolgono usualmente all’AIPAC quando necessitano di informazioni» sul Medio Oriente, e spesso «l’AIPAC è chiamato in soccorso perchè prepari tracce di discorsi pubblici, consigli un progetto di legge, dia pareri sulle tattiche, raccolga co-firmatari (dei suddetti progetti di legge) e mobiliti i voti». Cosa che l’AIPAC fa tempestando di telefonate e incontri a tu per tu deputati e senatori, e inoltre facendo telefonare da ricchi sostenitori ebrei dei candidati e dei parlamentari.
Così ad esempio, quando Condoleezza Rice ha provato a far rivivere il processo di pace coi palestinesi nel marzo 2007, prima di partire per la Palestina ha ricevuto una lettara dell’AIPAC, firmata da 79 senatori (su cento in totale) che le intimiava di «non parlare con il governo palestinese fino a quando non riconosca Israele, rinunci al terrorismo e si pieghi agli accordi israelo-palestinesi».
Nel gennaio 2003, al New York Sun, il direttore esecutivo dell’AIPAC Daniel Kohr confidò che «la silenziosa opera di lobbying al Congresso per fargli approvare l’uso della forza in Iraq è uno dei grandi successi dell’AIPAC dell’anno scorso». Si noti che, in 13 sondaggi Gallup del 2007, il 77% degli ebrei americani si sono detti contrari all’intervento in Iraq, contro il 52% degli americani in genere. Come scrivono Walt e Mearsheimer, «la lobby non è sempre rappresentativa della comunità di cui si proclama portavoce».
Ma questo conferma solo una costante della storia ebraica: invariabilmente, a dirigere il popolo sono le minoranze più zelanti, che fanno a gara per mostrare il loro zelo («Lo zelo per la tua casa mi divora», come si legge nella Bibbia). Anche il movimento sionista è stato una minoranza, osteggiata un secolo fa da tutto il rabbinato che considerava un sacrilegio il ritorno alla Terra Promessa con la forza, e sacrilego un Israele come Stato laico. Gli zeloti, i farisei, i messia autoproclamati l’hanno sempre vinta.
Nel 2002, la conferenza AIPAC ebbe come titolo «L’America e Israele insieme contro il terrorismo»; furono indicati come terroristi non solo Bin Laden, ma Arafat, Saddam, i Talebani, Hamas, Hezbollah, Iran e Siria, tutti insieme. Pareva un delirio minoritario: era la direttiva per la politica di Bush jr., era già la definizione di «Asse del Male».
Non a caso nel 2004, alla riunione AIPAC, Bush jr. ha ricevuto 43 deliranti standing ovation. Nel 2007, gli applausi sono andati all’ospite d’onore, Dick Cheney, che annunciava il «surge» delle truppe in Iraq. Ma il più applaudito è stato il telepredicatore Hagee, il fondatore della «chiesa» cristianista cui appartiene McCain.
Non c’è dubbio che quest’anno tocca a Teheran. La conferenza AIPAC è tutta dedicata alla «settimana dell’odio contro l’Iran», allo scopo di premere sulla politica per un attacco preventivo e, allo stesso tempo, preparare psicologicamente l’opinione pubblica occidentale a tale attacco, aizzandola contro il «pericolo iraniano». Lo si sa per certo, perchè la campagna è già cominciata in Europa.
Ai primi di maggio, a Berlino, s’è tenuta una conferenza di una nuova organizzazione, il Mideast Freedom Forum Berlin, con 400 partecipanti e parecchi giornalisti (che non ne hanno quasi parlato). La conferenza aveva per titolo: «Il regime iraniano, la sua guerra santa contro Israele e l’Occidente - Come reagisce la Germania».
La reazione della Germania (e dell’Europa) ad un bombardamento preventivo e non provocato dell’Iran evidentemente preoccupa: certe parole d’ordine e certi allarmismi che sono da anni nel discorso politico a Washington («Bomb, bomb, bomb Iran»), qui non sono ben accolti. C’è il rischio che in Europa si evochino concetti come atrocità e crimini contro l’umanità, specie se l’attacco sarà con testate nucleari.
Così, a Berlino, il neonato Forum (una emanazione della lobby) ha mirato a creare la nuova mentalità, martellando nelle teste tedesche i concetti-base della propaganda, e giocando sui complessi di colpa germanici. Così il professor Charles Small, di Yale, ha spiegato ai 400 convenuti che l’Islam radicale e il Nazismo hanno una comune ideologia, sono un tutt’uno; e l’uno è la continuazione dell’altro con un nuovo volto.
Binyamin Ben Eliezer, politico israeliano (ed ex generale) ha evocato il pericolo di «un secondo olocausto», ed ha detto chiaro: «nè gli studenti, nè i professori, nè i governi europei devono sostenere l’Iran». Perchè l’Iran «è la più grande minaccia nella storia dell’umanità», e quindi «per tutti gli Stati civilizzati», ha detto letteralmente il professor Diethard Pallaschke. Costui è il presidente di una filiale tedesca di un gruppo di pressione americano, «Scholars for Peace in the Middle East» (SPME), che sorveglia nelle università - anche con reti di informatori, «Campus Watch» - quei professori che osano dare giudizi negativi sulla politica israeliana.
E’ il SPME ad aver dato la stura alle manovre che hanno portato al licenziamento di Norman Finkelstein dalla università «cattolica De Paul University per le sue posizioni sull’‘industria dell’olocausto’». E’ il SPME ad impedire continuamente che Tony Judt, il saggista britannico ebreo critico di Israele, possa tenere conferenze negli Stati Uniti.
Poichè l’Iran è la più grande minaccia della storia a tutta l’umanità, ha ripreso Jeffrey Herf docente alla Maryland University, «c’è bisogno di un nuovo antifascismo». Kayvan Kaboli, portavoce di un fantomatico «Partito Verde dell’Iran», ecologista, è venuto apposta da Los Angeles per rafforzare il concetto: il regime di Teheran «è essenzialmente fascista» e rappresenta un pericolo mondiale come «il global warming». Il «regime clerico-fascista», ha insistito questo Kaboli, ha il progetto di «islamizzare il mondo»; progetto contro cui la «politica conciliante europea» è «vergognosamente inefficace».
Harry Broder, opinionista di Der Spiegel, uomo della sinistra illuminata, ha insistito: l’Iran è «il quarto Reich», e la differenza rispetto al 1939 è che oggi non c’è in europa un Churchill «capace di agire quando i negoziati non bastano». Poi ha parlato Thomas von der Osten-Sacken: «Schiacciamo questi islamo-nazisti, sbattiamoli in galera, uccidiamoli!», ha gridato fra gli applausi.
Costui, va detto, è uno dei capi degli Anti-Deutschen (gli «Anti-Tedeschi»), un movimento ideologico ben rappresentato nella sinistra tedesca che, dalla lezione delle colpe tedesche nella seconda guerra mondiale, trae una conclusione: bisogna sostenere Israele senza condizioni.
Come si vede, il Forum aveva la mira di influenzare soprattutto le sinistre germaniche, ecologiste e pacifiste, che si teme potrebbero manifestare contro una guerra preventiva. Osten-Sacken ha svolto il suo compito: pacifista che grida «a morte!». Saul Singer infatti (è direttore editoriale del Jerusalem Post. Quotidiano di ultradestra) ha potuto salutare «la nascita di una nuova sinistra antifascista» in Europa, questa volta in piedi contro «il nuovo Hitler». La «politica di appeasement» degli europei, ha gridato, è proprio quella che «costringerà Israele alla guerra». Bruno Schirra, noto giornalista progressista, ha rincarato: con «il sistema clerico fascista» iraniano si può parlare solo «il linguaggio del bastone». Guerra per la pace e contro l’inquinamento!
Naturalmente, al Forum erano ben presenti gli agenti israeliani della disinformazione e della propaganda. Ha parlato Menashe Amir, che dirige i programmi in lingua persiana della radio israeliana, «Kol Israel» (la Voce di Israele) nonchè il sito in persiano del ministero israeliano degli Esteri, «Hamdami». Questo Amir ha assicurato che l’Iran ha il progetto di «distruggere l’ordine mondiale», in quanto ha «intenzioni sataniche». Amir ha ricordato di aver detto recentemente al presidente Bush, in un incontro privato: «I cittadini iraniani aspettano che lei li liberi». Al che, Bush avrebbe risposto: «Abbiamo lo stesso problema in Iraq, dove siamo impantanati».
Benny Morris, giornalista ebreo che un tempo era colomba, oggi docente di Storia alla Ben Gurion University, ha pronunciato un discorso dal titolo: «Un secondo olocausto? La minaccia ad Israele». In cui ha ammesso molto chiaramente qual è la vera minaccia che preoccupa Sion: un Iran nucleare, ha detto, «ridurrebbe i flussi di investimento in Israele e indebolirebbe gli accordi di pace che abbiamo firmato con altri governi arabi». Questa sarebbe una «perdita strategica» che va curata ad ogni costo.
Israele, ha annunciato, dovrà intervenire preventivamente a distruggere il progetto nucleare iraniano, secondo lui «meglio se con armi nucleari».Ci saranno molte vittime civili, ha ammesso Ben Morris, ma «tutto considerato, un colpo nucleare è preferibile a un secondo olocausto», quale sta meditando la «inciviltà iraniana».
Morris ha dato una informazione molto interessante. Ha detto: Bush ha assicurato il primo ministro israeliano Olmert che «del programma nucleare iraniano si prenderà cura lui». Ma per questo, ha aggiunto il ben informato giornalista, Bush deve aspettare i risultati delle elezioni presidenziali USA a novembre. Attaccare prima, con i sondaggi così ostili alle guerre in corso, equivarrebbe a distruggere le possibilità di vittoria del candidato repubblicano McCain. Però, se invece vince Barak Obama, Bush lancerà l’attacco preventivo, approfittando del periodo di interregno (transition), quando il nuovo presidente non è ancora insediato.
Ottenendo in tal modo due risultati: annichilire un altro avversario di Israele, e lasciare in eredità al presidente democratico una terrificante situazione politico-diplomatica. Come disse una volta Dick Cheney, imporre l’atto compiuto in Iran «e lasciare al successore il compito di pulire la m...». Di questa conferenza il solo a riferire è stato un giornale austriaco, Der Standard. Il suo direttore, Gudrun Harrier, ha ipotizzato nel suo commento che la riunione sia parte di un «concertato sforzo di lobby per vendere la guerra contro l’Iran». Facile previsione.
In USA, come in Europa, sono state date le parole d’ordine che tutti i governi, i parlamenti, i media già ripetono: Ahmadinejad «ha detto che vuol cancellare Israele» (3), l’Iran è «il Quarto Reich», è «un pericolo per il mondo intero», l’Islam «è il fascismo del ventunesimo secolo», contro il quale è necessario il pugno di ferro preventivo; anzi è moralmente legittimo, in quanto la nuova guerra è «antifascista».
E’ cominciata l’orwelliana «settimana dell’odio». Che promette di essere «il semestre dell’odio». Il Forum di Berlino, ha anche annunciato Udo Steinbach, direttore del «German Orient Institute», si trasformerà in «un AIPAC per i Paesi di lingua tedesca». Così il cerchio è completo.
giovedì 5 giugno 2008
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