di Stenio Solinas
«Noi siamo gli uomini di questa foresta,/ sotto gli alberi del bosco/ viviamo secondo i dettami del Re/ altre risorse non abbiamo/ voi invece avete chiese e affitti e molte altre cose/ dateci un poco del vostro denaro/ in nome della Santa Carità./ ...Oggi cenerete con me/ per amore del nostro Re/ sotto il fidato albero».
I versi riportati in esergo fanno parte del The Greenwood Tree, la versione seicentesca di quello che a metà del XV secolo era conosciuto come A Lytell Geste of Robyn Hode, e del quale conserva molti elementi originali. Raccontano il momento in cui Robin, sbucato all’improvviso da una macchia, afferra le briglie del cavallo di re Riccardo: travestito da monaco, il sovrano è infatti penetrato nella foresta per vedere, senza essere riconosciuto, se lì alberghino le virtù del suo regno ideale. Sogna, il re, tutto ciò che a corte non trova più: lealtà, onore, cavalleria, fratellanza, magnanimità, ospitalità, cortesia, coraggio, una certa qual pietà francescana...
Riccardo, dunque, siede con Robin e i suoi e banchetta con un cervo di sua proprietà, catturato di frodo dal più fedele dei suoi sudditi. Questa riconferma, dal valore quasi sacramentale, del patto fra suddito e sovrano, è suggellata nel racconto da una gara di destrezza in cui Robin, che non perde mai, chiunque sia l’avversario, suo pari, suo inferiore o suo superiore nella scala gerarchica sociale, è sconfitto. Dopo la vittoria il re rivela la propria identità, l’altro si inginocchia, il re lo fa rialzare, lo perdona e lo accetta al suo servizio. Perché Robin Hood è un fuorilegge, ma non è un ribelle, incarna la tradizione tradita, non la sovversione che ne ha preso il posto o quella che, approfittando della situazione, vorrebbe comunque sovvertire l’ordine sociale. È un rivoluzionario conservatore, non un radicale, un rivoltoso, un progressista e insomma tutta quella melassa retorica che a questi termini si accompagna.
Per chi ha in mente il più bel Robin Hood cinematografico di tutti i tempi, l’Errol Flynn del film omonimo di Michael Curtiz, l’idea del ministro delle Finanze Giulio Tremonti nei panni dell’arciere di Sherwood ha qualcosa fra il ridicolo e il surreale. Ma il Tremonti intellettuale che emerge dal suo ultimo saggio La paura e la speranza, racconta invece di un pensiero che ha molti debiti con il filone della cosiddetta contro-modernità o altra modernità. Le polemiche contro le oligarchie finanziarie, la difesa delle libertà individuali e delle piccole patrie, l’importanza delle radici e del retto rapporto fra governanti e governati, l’appartenenza a un comune sentire e l’utilizzo intelligente e non nostalgico delle tradizioni provengono da lì, affondano in quell’humus di pensiero. E francamente avrebbe più senso interrogarsi sul ridicolo che sprigiona da una interpretazione di quella figura fra storia e leggenda nell’ottica buonista e consolatoria del difensore dei poveri e dei diseredati, di un proto-proletario o di un marxista che si ignora.
Come ha scritto lo storico Simon Schama nel suo fondamentale Paesaggio e memoria, «Robin Hood è devoto alla Vergine e cavalleresco con le signore. La sua abilità nel maneggiare l’arco lungo di legno di tasso celebra la più tradizionale delle armi inglesi da guerra agli albori dell’era della polvere da sparo. Soprattutto, Robin è un fulgido partigiano del re. Guy di Gisborne e l’infame sceriffo sono suoi nemici proprio perché hanno profanato la sacra aura della regalità piegandola ai propri interessi. Simile al re financo nell’aspetto fisico, Robin è il surrogato della monarchia o quanto meno il leale sostituto che in assenza del principe raddrizza i torti e pratica una primitiva giustizia sotto le querce».
Secondo James Clarke Holt, a cui si deve il saggio più completo sulla letteratura, il folklore e la storia di Robin Hood (in Italia è stato tradotto da Rusconi una ventina di anni fa con il titolo, appunto, Robin Hood) la leggenda che lo riguarda ebbe del resto origine negli ambienti militari delle corti tardo-feudali e fu poi rielaborata dai menestrelli dei castelli baronali prima di passare ai mercati e alle fiere, dove avrebbe preso piede nella tradizione popolare. Detto in breve, Robin Hood nasce nobile e la sua appartenenza alla classe degli yeomen, agricoltori e piccoli proprietari terrieri, ne fa la classica figura intermedia che serve al corretto rapporto gerarchico della società del suo tempo. Questo spiega il suo essere un conservatore appassionato e nostalgico, uno che sogna la restaurazione di una monarchia giusta incarnata nella personalità del sovrano e che vorrebbe vedere ristabilito secondo rango, classe e proprietà l’ordine sociale stravolto dalla comparsa di malfattori e parvenu.
Tutto ha inizio nel XIV secolo, all’epoca di Edoardo II e di Edoardo III, allorché la foresta, territorio del re destinato alla caccia, è, in quanto entità giuridica, fonte di profitto per quei nobili che valutano la corona in base ai loro calcoli economici. La smania guerresca dei Plantageneti, la dinastia allora regnante, vede la concessione in affitto di quelle stesse foreste con contratti che, per incentivare gli acquirenti, ignoravano le antiche consuetudini e i diritti di pascolo e legnatico su cui sino ad allora si era basato l’intero mondo sociale dei boschi. L’occhiuta e inflessibile legislazione dei nuovi baroni affittuari fece il resto e nel 1308, a Wekefield (Yorkshire), un certo Robin Hood venne multato per aver raccolto legna nella foresta del conte...
Chi fosse il modello della leggenda, storicamente non si sa, ma chi fossero i suoi nemici, nota Schama, lo sappiamo benissimo. «Non il re, bensì gli usurpatori del suo buon nome: funzionari senza scrupoli, abati corrotti, usurpatori di terre, tutti quelli che insomma hanno alterato la nozione originale di foresta intromettendosi tra l’amministrazione diretta della giustizia reale e i sudditi». Naturalmente, la foresta di Robin Hood è un’elegia per un mondo di diritto e giustizia che in realtà non è mai esistito, ma non è questo il punto. Il punto sta nel rapporto verticale e reciproco fra suddito e sovrano, nell’idea di un rispetto dato da un patto di protezione da un lato, di fedeltà dall’altro.
Nel Cinquecento, questa leggenda è ormai parte integrante della cultura ufficiale inglese dei Tudor, dove libertà e lealtà monarchica vanno a braccetto: nei Maytime plays, le rappresentazioni di maggio, Robin è il Signore dell’anarchia nell’antiregno della foresta, il portatore di un salutare disordine. Non è un eversore, perché è l’arbitro di un mondo temporaneamente rovesciato proprio per meglio rimetterlo dritto. Il maggio di Robin è la pasqua fuorilegge, ovvero la resurrezione della speranza e il verde dei suoi abiti è il verde della speranza cristiana.
Marian, frate Tuck, Little John, il menestrello Alan-an-dale raccontano un’Inghilterra idealizzata, silvestre e cavalleresca dove il trystel tree, l’albero del sovrano, si vede contrapporre il maypole, l’albero di maggio simbolo della fertilità, ma sta anche a simboleggiare il tryst, l’incontro, il patto, tra sovrano e suddito all’ombra di una quercia...
La destra non ha alcun bisogno di rubare Robin Hood alla sinistra, come sembrano paventare alcuni titoli e articoli di giornale. È roba sua, tutto qui. Certo che se quest’ultima, come ha fatto ieri l’Unità, si mette a difendere i petrolieri angariati dal Tremonti-Hood, allora ti cascano le braccia...
sabato 7 giugno 2008
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