sabato 21 giugno 2008

Paolo SIGNORELLI, il maestro nero sotto l'albero di marta

Gerardo Picardo

A sentirlo parlare, viene voglia di mandare tutti al paese di Pulcinella e ritirarsi in campagna come Antifonte, ad allevare cavalli. Condannati a cercare di rimanere uomini nella mischia della mediocrità - anzi per dirlo con l’eloquente titolo della collana che recita: ‘Contemporanei all’imbecillità - per tutti Paolo Signorelli è un confronto sicuro. Lui, professore di filosofia, eretico pertinace, è un ‘fascista’ per scelta. Ciò che resta dell’anarca jungeriano perso tra le scogliere inquiete del nichilismo e la voglia di futuro che ci abita nel petto. Contadino eppure penna finisssima, capace di ascoltare le curve e rispetto al teatrino del Palazzo di immaginare ancora una politica che parta dalla cultura, disegnando quel ‘Laboratorio’ di idee e di liberazione sul quale scommette dal 1997, quando fondò ‘Giustizia Giusta’ per denunciare i mali del sistema giudiziario. Ha una storia che è un romanzo, il ‘camerata’ Signorelli. A raccontarla è un’intervista nera e bellissima di Giuliano Compagno nel libro: Paolo Signorelli, edito da Coniglio Editore (pp. 112, euro 12). Una intrigante passeggiata a passo fermo negli anni che vanno dal dopoguerra ai nostri giorni di decadenza. Ha ragione da vendere Giuliano Compagno quando, incalzando con una domanda stretta il suo interlocutore, nel frattempo perso nell’immancabile sigaro stretto tra le labbra, annota che conosciamo Signorelli “come uomo che ama parlare al futuro”, pur senza lanciare un ingiusto colpo di spugna sul suo arresto nell’agosto del 1980 e sulla sua “indecente reclusione di sette anni e passa” nelle patrie galere cui si sommano altri mille giorni passati ai domiciliari in qualità di detenuto in attesa di giudizio. Di quelle storture giudiziarie lo stesso Signorelli ha lasciato un documento di pesante accusa in un libro pubblicato nel 1996 dalle edizioni Sonda: Di professione imputato. Anche in queste pagine, urticanti per quanto sono vere e grondano vissuti, il pizzetto bianco di Paolo Signorelli guarda avanti: “Viviamo il Kali Yuga”, avverte nella risposta a Compagno, una stagione che nell’immaginario indù sta a indicare l’età di kali, l’ultimo momento ciclico prima di un nuovo Satya. E’ il declino appena prima della fine: caduta di ideali, estetica, assenza di stile. “Mancano i sogni – mastica amaro Signorelli – Eppure noi, io, tu, nei momenti più disperati dell’esistenza si guarda al sogno come a qualcosa di vivo che è lì davanti a te, lo puoi andare a cogliere con le tue mani”. Lui e pochi altri pensatori rimasti (se ne contano ormai sulle dite di una mano monca), si rivolgono “ai non dormienti, tanto per usare un’espressione guenoniana” ricordando che la verità non è quella che appare.
E allora si infilano queste righe e non hai la forza di lasciarle, come ha scritto anche paginata Giampiero Mughini in una paginata su ‘Libero’del 17 giugno scorso. Anzi, hai come l’impressione di ritrovarti davanti a quell’irriducibile antagonista, un po’ dandy nella camicia sbottonata anche in inverno, che ti guarda con gli occhi azzurri e piccoli che ti pesano. I suoi pensieri che corrono sempre più avanti degli altri. E’ una sorta di esame benevolo in cui quel capro espiatorio che serviva dipingere come ‘catttivo maestro’ per chiudere il cerchio dell’eversione nera, ti chiede anche senza parlare se hai letto ‘I Proscritti’ di von Salomon o hai capito le mosse di ‘Cavalcare la tigre’, pur non avendo particolarmente amato il ‘Barone’. Quindi manda giù un bicchiere – difficile stargli dietro anche in questo – e ti ritrovi catapultato in quella canagliesca topologia che accomuna tutti i ribelli come lui che da neopagani si rifanno a una celtica su cui non si può sputare. Senza farti seghe mentali vedi un paesaggio popolato da inquieti cercatori di segreti runici, ma declinati nell’oggi, come un memoriale di cui non puoi fare a meno perché è una seconda pelle. E’ una dannata genia di gente in rivolta con il proprio tempo, meravigliosamente solitari, inguaribilmente puttanieri.
Leggi le pagine inattuali di Signorelli e ti rendi presente al tavolo sul quale il dialogo con Giuliano Compagno ha schiuso un po di porte arrugginite sui cardini di comode versioni, ha rimestato ombre e sfatato quelli che sembrano – o sono stati fatti passare – come ‘misteri neri’. Intendiamoci: l’espiante Signorelli non è uno stinco di santo e credo non gliene freghi niente di dimostrare il contrario. Ma è un uomo per il quale la vita è libertà. E’ stato protaginista – rimarca Compagno – del “più clamoroso caso di detenzione politica dell’Italia repubblicana. Non credo che esistano uomini del passato bensì che esistano e sono sempre di meno, uomini con un passato”. Perciò queste riflessioni sono dedicate ai vivi, perché riassaporino la curiosità del mondo, ma anche “ai morti: nessuno dica loro – avverte l’interlocutore di Signorelli – che su quei vessilli di un tempo, che sono costati una vita e infinito dolore, ora ci stanno seduti i Gasparri e i Bertinotti. Credono sia tappezzeria”.
E il racconto si snoda. Prende partenza dal 25 aprile 1945, dagli occhi ciechi del padre di Signorelli, ferito nel 1916 durante una delle battaglie dell’Isonzo e arriva sino al nostro nulla politico. Signorelli ha iniziato a fare attivismo a 11 anni, quando insieme ad altri ragazzini, spiega, “inventammo l’intifada”. E’ la cronaca di anni difficili nella quale fa sempre da sfondo una terra – il suo viterbese – che è madre in ogni occasione, perché “dove c’è la terra non si muore di fame” e neanche lo spirito conosce tramonto tra quelle radici. All’arresto del Duce, quando già si stanno arrotando gli scalpelli per tirar giù dai palazzi le aquile littorie e i mezzi gerarchetti si rifanno il guardaroba, lui – appena un ragazzo – per sfida indossa la divisa da balilla e scende in paese, a Supino, la sua inespugnabile tana. Aveva dieci anni e rabbia da pugni in tasca, che conservò per tutta quella “zona grigia che durerà almeno fino all’8 settembre”. La lancerà oltre una linea Gustav che “non fu sfondata” – mette in chiaro in un passaggio del testo insieme a una miniera di aneddoti e cronaca che passa per la propria pelle – e non la reprimerà quando arrivarono i ‘liberatori’. Anzi: “Ho ancora in testa le urla delle donne ciociare, costrette a fuggire alle bestialità delle truppe marocchine che si resero protagoniste di centinaia di stupri”. Perché la lotta di liberazine fu anche questo. E loro, come si sentivano i ragazzi di un tempo cui i maestri che avevano insegnato la ‘dottrina fascista’ (perché “un’ideologia elaborata dai fatti diventa una dottrina, mentre ideologia fascista è un non senso inaccettabile”, puntualizza il professore) per poi essere i primi a dire che Mussolini era un puzzone? “Non si trattava, certo di ‘neofascismo’. Noi ci sentivamo fascisti e antimericani. E basta”. Erano i ragazzi neri del via Pal, volevano vederci chiaro anche in mezzo a gente più grande, quando capisci che il coraggio è una strada che ti porta lontano dalle scelte di altri perché “madre Paura ha tanti figli”.
Vengono quindi le botte prese e date negli anni degli studi, il passaggio alla militanza attiva, quel Movimento Sociale “dove si volevano intruppare gli incazzati nel castrante gioco della democrazia”, tra un Michelini che “era un bottegaio della situazione. Si diceva che avesse venduto calendari della resistenza” e un ’68 sprecato a Destra da un partito chiamato a “fare il pompiere” su mandato della Dc, anche se “le occupazioni del ’68 in molti atenei vennero gestiti dal FUAN”. Nascono da quelle storie, più che da quegli umori, e sono vicende di politica e di carne tenuta controvento, le controverse stagioni di Ordine Nuovo, di cui Signorelli è espressione e che a suo giudizio arriva sino a una grande mente, quella di Adriano Romuladi, “un ordinovista. Una limoidezza solare nella sua paganità indoeuropea di cui rimane ampia traccia nelle opere da lui scritte”. Insieme, firmarono diversi pezzi su ‘Civiltà’.
Mette in chiaro Signorelli: “Eravamo fascisti per rabbia. L’essere fascisti per noi significa essere ribelli, essere eretici, avere in poche parole sulle palle i capi, tranne quelli naturali. E il capo naturale tu lo fiuti nel momento in cui lo trovi accanto a te, nella lotta”. Arrivano anche le contestazioni per Trieste italiana, tra il ’50 3 il ’54, con “le risse con gli slavi e la guadiosa occupazione dei casini dove le nostre brigate venivano accolte alla grande”. Ma sono anche gli anni di ‘Imperium’ e dei ‘figli del sole’, culture ed esistenze così diverse tanto dalla Destra radicale che “da quella specie di circoncisione ideologica che porta il nome di Allenza nazionale”. Per chi li ha vissuti era il tempo della ‘battaglia dell’Ambaradam’, di Valle Giulia che per Signorelli è solo “una belle leggenda metropolitana”, e ancora i tempi della riunione di Albano e di di via Quattro Novembre, dove c’era un palazzo di proprietà del Pci dove si stampavano ‘l’Unità’ e ‘Paese Sera’, e “ogni volta che i nostri cortei passavno da lì lo scontro era inevitabile. In occasione di una manifestazione nel ’56 per Budapest, vi fu uno scontro durissimo con i tipografi che vennero fuori con le barre di piombo che stavano in fusione. Ci si menava con tutto. E la polizia non interveniva mai”.
I nemici di quei giovani che volevano abbracciare il socialismo rivoluzionario “erano i direzionali del Msi, non i sociali”. Di figure e storie, maggiori e meno note, della destra italiana dal dopoguerra a oggi sono infarcite le testimonianze di Paolo. Si ricorda ed esempio quel Giulio Caradonna che oggi agita la vecchia gruccia arrivando a bloccare il processo di beatificazione di La Pira, che negli anni verdi si dimostrò un guascone “capace di combinare cose incredibili, come all’Ambaradam, quando si mise in mezzo alla piazza dove stava succedendo di tutto (lui era invalido, ndr) con l’ombrello in mano e il cappotto a dare ordini ai celerini finché le guardie se ne accorsero e lo triturarono”.
Sono ricordi di un vecchio rompiglioni? Macché. Non fa male sentire Signorelli che puntualizza di un suo arresto per l’aggressione ai partigiani che erano stati autori dell’infame strage di Oderzo: “Lì erano stati presi dei cadetti della Repubblica Sociale, ragazzi tra i 12 e i 15 anni, e nel cortile interno della loro scuola ci erano passati sopra con un camion. Questo nel 1945, dopo il 25 aprile. Vennro tutti assolti. Ma noi non li assolvemmo. Li aspettammo fuori del Palazzaccio e li pestammo. Eravamo in tre. La guardia di Palazzo Dongo e la polizia non fecero in tempo a intervenire e noi ce ne andammo con passo normale”. Goliardate da giovani, invece, è la scommessa – peraltro vinta dallo stesso Signorelli e da Marco Nicoletti – si riuscire a “tastare le ieratiche chiappe di Papa Pacelli mentre veniva portato sulla sedia gestatoria”, meglio noto nel mondo giovanile come ‘Gegè’, “lo sollevammo da sotto e lo alzammo al grido di ‘Viva il Papa!’”.
Paolo si laurea nel ’63 con una tesi sul sindacalismo riviluzionario, a Scienze politiche, nel frattempo “ero andato in Germania a fare il trattore, il pizzettaro, l’imprenditore della pommarola insomma… “. Vive due anni tra la Mosella e il Reno con Claudia che poi sarebbe diventata sua moglie nel 1959 facendo il viaggio di nozze a Ortisei “e forse lì bevemmo un po’ troppo tutti e due. Da lì proseguimmo pe rla Germania”. Già, Claudia. La donna del ‘nero’. Un carattere forte, ha tenuto le redini di una famiglia sempre unita nonostante le bufere, ha guadagnato il pane con il suo lavoro di insegannte e ha fatto la spola da un carcere all’altro quando il marito recluso non si sa pr cosa, veniva tenuto in gabbia. La casa dei Signorelli ancora oggi ha una chiave sulla toppa per gli amici di sempre e di tutto. Anche se molti, nel percorso bello e irragionevole dei giorni, se li è portati via la morte. Come è accaduto per Luciano Cirri, “uno che incontravi a sera con un sorriso tra l’ironico e il caustico, appoggiato al bancone del bar col suo whisky in mano. Quel bancone rappresentava il suo punto di equilibrio. Di un’umanità straordinaria e di una lucidità paurosa anche quando era sbronzo”.
Di quell’umanità con il sangue in rivolta facevano parte anche Gianni Nardi, “avventuriero dell’ideale” e Giovannino Guareschi che, reo di aver sostenuto che De Gasperi fosse implicato nei bombardamenti di Roma, “riempì il suo tascapane e si si fece un anno. Uscito di galera non pretese nulla”. E c’era anche un tal Orsi, “un ferrarese giocoso e puttaniere che salutava dicendo: Heil Mao!”. Cose diverse, per Signorelli, dalla “cialtronaggine” di Lotta Continua. Su un altro punto occorrerà riflettere dopo che il lettore avrà dosato queste righe scritte con l’inchiostro di una vita: lo scioglimento ‘strano’ di Ordine Nuovo. Signorelli non ha dubbi: quello che accadde il 23 novembre 1973 “fu un’operazione a regia compiuta da Taviani in nome e per conto di Gladio”. Si trattò di un’operazione politica e regia, mentre “con Ordine Nero Mario Tuti non aveva nulla a che fare”. Ci sono bombe che esplodono a Piazza Fontana e poi a Bologna. Ordigni che fanno male che restano come una ferita non chiusa nella carne del nostro Paese. Signorelli parla anche di questo e bisogna essere di legno per non annuire più di una volta quando racconta la sua versione.
Anni di pazzie e di lotta, di speranze e delusioni, anche se per Paolo Signorelli il tempo dei bilanci – operazione ragionieristica che non gli appartiene – è molto lontano. Questo libro non vuole esaltare nulla, non lo fa neanche Signorelli, che se ne frega. Ma capire, togliere le bende a vulgate incancrenite, questo sì. Contrapponendo il senso di alcune lotte alla ricerca disperata di quello che è l’approdo di mille tradimenti: “qualche angiporto parlamentare…”. Ecco perché ritrovarsi una sera in campagna a bere del buon vino con Paolo Signorelli o vederlo liturgicamente bruciare foglie di alloro per scacciare la mediocrità con il rito della canicula, vale più di mille lezioni in accademie di parrucconi e mezze calzette.
Se c’è una cosa che Paolo Signorelli davvero insegna è la bellezza della differenza, quel korismòs che è appartenenza e scelta di vita. Una coerenza che viene riconosciuta anche da chi stava ed è dall’altra parte della barricata. Questa unione ai amici e di spiriti liberi – scandisce Signorelli – “aveva e ha un simbolo: il Grande Albero del Giardino di Marta, una secolare pianta di alloro”. E anche se questa estate il vento lo ha troncato, il Signorelli demiurgo di Paganitas è indomito. Su quella terra, come in molti suoi pensieri, rimane il fascino di un incontro che vale la pena portare a sera: sta e cade l’umanità di uno “stare insieme vicino al fuoco”, il cantare e bere, la carne, il fare festa. Sono le dimensioni umane e vere, che nascono da un pensiero, un sorriso, una lacrima. La stessa fonte da cui sgorga la parola filosofica, che è penultima e ha tutto da domandare ancora. Signorelli ha avuto e ha molta gente che ne ha affiancato il cammino. Di camerati pochi, di maestri ancor meno. Il più delle volte ha dovuto trovarseli nei libri, nella storie incontrate nei dolorosi percorsi politici e di detenzione, forse nel Denken di qualche scomodo esempio per i benpensanti, come Ernst Jünger la cui strada non andava né a destra né a sinistra: andava avanti dritta. Ma ance da questi giganti e titani non si è fatto schiacchiare- E’ rimasto sempre libero, sapendo che doveva scegliere ad ogni crocicchio. Ricordo che dovevamo presentare un mio libro, ‘Destra Radicale’, che vanta peraltro una sua bellissima intervista. Gli telefonai per assicurarmi la sua presenza e nel rapporto di verità che ci lega, tagliò corto: “Se lo fai nella sede di An, non vengo. Non posso sporcarmi i piedi. Ho un’altra storia”. Attaccò e non venne. Qualche sera dopo, a quell’incontro, io parlai solo della sua intervista.
Mi sembrò allora e mi capita ancora oggi, pur non potendolo incontrare spesso, di appartenere ad alcuni di quei suoi pensieri di zolfo e silenzi. A un uomo così gli si vuol bene anche perché è uno dei pochissimi – a differenza di cialtroni che si godono rendite di posizione - che incontrandoti ti dice o ti scrive ancora: ‘In alto i cuori’; ti fa pensare che esiste qualcosa, un’idea, che va oltre la miseria del lavorare per vivere, peraltro facendosi strada tra raccomandati e mediocri che zavorrano. Pensando al messaggio della sua ascia bipenne, l’ideologo che ha smontato tutti i castelli d’accusa (gli avevano appioppato sul groppone ben tre ergastoli), passati i settanta anni continua a mettersi in discussione cercardo consonanze con terre e popoli. Per la sua causa si spesero Amnesty International e il Partito Radicale. Gli altri - tranne la moglie, i due figli Luca e Silvia e le battaglie del fratello Nando - sono rimasti colpevolmente in silenzio. Anche questo non ha dimenticato Signorelli. A chi è riconoscente?, gli chiede Giuliani Compagno. “A tutti coloro che sono rimasti coerenti”, replica il professore nero. Perché “sarà pure un mondo di merda ma di persone coerenti ce n’è ancora. Le fiuti, sai che non tradiscono, sai che ci saranno sempre”. Come darti torto, vecchia canaglia?
Gerardo Picardo

2 commenti:

  1. chissà cosa penserebbe il sig .Signorelli vedendo il suo post affiancato ad un simbolo che ha presentato la santanchè alle ultime elezioni...

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