Maurizio Blondet
La figura del padre è così rara oggi, che quando se ne trova uno, va segnalato. Ho appreso molto da un padre negro. Arcivescovo. Il cardinale del Kenia John Njue è stato in visita a Viterbo, e davanti a un piccolo pubblico ha raccontato la situazione del suo Paese.
Come forse ricorderete (io l’avevo già dimenticato) l’inverno scorso il Kenia è stato sconvolto da scontri tribali, con saccheggi e massacri che facevano prevedere una ripetizione della tragedia ruandese, lo sterminio fra Tutsi e Hutu.Oggi, la situazione resta difficile, fragile, ma il cardinale la giudica aperta a una faticosa riconciliazione.
Nei giorni roventi degli eccidi, in Kenia certi politici agitarono l’idea di farne uno Stato federale.
In fondo, ho pensato, è realismo: un prendere atto della irrimediabile, endemica scissione per tribù dell’Africa, che gli Stati moderni (ex-coloniali) hanno ridotto ad una convivenza «nazionale» forzata, artificiale, sotto dittatori che, poi, favoriscono la loro tribù sulle altre: innesco per inguaribili altri dissidi tribali, che aspettano solo di esplodere. In Africa è così e, uno pensa, così sarà sempre. Dopotutto, come dicono gli inglesi, «good fences make good neighbours», sono le buone staccionate a fare i buoni vicini.
Ma il cardinale si è opposto all’idea. Con un documento della conferenza episcopale, nei giorni di fuoco e di sangue, ha detto che «il Paese non è maturo per il federalismo». E’ stato un documento contrastato, difficile, impopolare; anche molti preti si sono ribellati (uno è stato ucciso nei disordini, forse vi partecipava). Perchè? Perchè, ha risposto il cardinale, «federalismo» in Africa significa tribalismo. E allora? Prendiamone atto... Ma no.
Ci sono matrimoni misti, la secessione sarebbe entrata nelle famiglie stesse (l’abbiamo visto in Jugoslavia). Soprattutto, gli scontri riguardavano il possesso di terre agricole: terre che alcuni avevano a suo tempo comprato dai coloni britannici quando se ne andarono, e che una tribù reclama come antico possesso patriarcale; questa la miccia dei disordini, si bruciavano le case e si uccidevano i proprietari. Il cardinale, in quei giorni, ha ripetuto che le terre saranno pur antico patrimonio tribale, ma che quelli che ci stavano sopra le avevano comprate, non rubate. Ha gridato, in quei giorni, ai suoi fedeli: erano tutti pagani quelli che saccheggiavano e bruciavano? O eravate voi cristiani? Ed ha lanciato, e fatto lanciare, un’opera di «riconciliazione», come la chiama.
Insomma, se intuisco la sua posizione: meglio mantenere l’unione, anche difficile e piena di tensioni, che seguire il richiamo della «natura». E’, appunto, ciò che deve fare un padre cristiano: mantenere la famiglia unita, non cedere al divorzio, anche se vivere sotto lo stesso tetto diventa difficile e forse difficilissimo. E’ una posizione che richiede coraggio e impegno personale.
Prima di tutto il padre - che appartiene a una tribù - deve avere forza e coraggio in sè. Un padre, virile, lo fa. Spontaneamente, come a rispondere a una domanda che per educazione non gli facevamo, ma che sta sulle labbra di chiunque sia stato in Africa, il cardinale ha trovato la metafora paterna verso quei suoi figli che ha visto ammazzarsi e saccheggiarsi. Come voi genitori - ci ha detto - cercate di educare i figli perchè diventino migliori, e poi accade che crescono al disotto delle speranze. Che vi deludano. Che ci si debba vergognare di loro.
Si capisce che anche lui è stato tentato di disperare; è tipico, anche molti missionari giungono a volte a disperare di questi africani che non cambiano mai, che sempre ricadono nei loro tribalismi, nelle loro invidie («Quella terra è mia») e violenze e superstizioni. Accade anche a noi, anche a me, di disperare degli italiani. Come non disperare della dodicenne che si fotografa nuda nei cessi della scuola per vendere poi le foto ai compagni? E di quei compagni? E dei loro genitori, come si fa a non disperare?
Il cardinale mi ha fatto capire che questo disperare - questa voglia di dire: ma sì, fate quel che volete, migliorarvi è impossibile - è mancanza di carità. Un padre non deve disperare dei suoi figli; un padre-vescovo ha l’obbligo di continuare ad educarli, a rettificarli e compatirli, anche quando gli si rivoltano contro, quelle giovani belve muscolose africane. «Le difficoltà sono sfide da vincere», ha detto più o meno: in famiglia come nello Stato. Anche se paiono insormontabili, sono sfide.
Non si concluda che il cardinale del Kenia sia un padre di manica larga. Adesso, dopo i disordini e il sangue, è stata ventilata l’idea della amnistia per le centinaia di giovani arrestati in flagrante saccheggio e violenza: a promuoverla sono i politicanti che hanno aizzato e forse pagato i saccheggiatori, salvando i loro bastonatori salvano se stessi. Il cardinale s’è pronunciato pubblicamente contro l’amnistia. Una amnistia è una falsa riconciliazione, non quella vera di cui il Paese ha bisogno.
La vera riconciliazione ha bisogno di verità: si conoscano i torti di chi ha male agito, se ne accertino le responsabilità, paghino il loro debito. Far emergere la verità su se stessi, sul proprio gruppo o tribù, è dolore; l’amnistia è un modo per evitare il dolore della verità, ma la verità è la medicina. E va bevuta, secondo il cardinale, altrimenti la malattia non guarirà.
Insomma, il vescovo nero - senza volerlo, senza conoscermi - mi ha dato una lezione anch’essa dolorosa, sulla mia pochezza di cristiano. E’ ciò che un vero padre sa fare spontaneamente. Ma certo questa spontanea limpidezza di giudizio, questa decisione di affrontare l’unione della famiglia-Paese come una sfida, è nutrita di molta meditazione davanti al cuore di Cristo: cosa devo fare, Gesù? Cosa ti aspetti da un padre cristiano? Cosa faresti Tu al mio posto? Molta preghiera dolorosa, molto coraggio paterno. Contra naturam.
Insomma, vi volevo trasmettere questo: ho visto un vescovo padre fedele, secondo Cristo. E fra l’altro, africano. Si capisce qui cosa deve assolutamente essere un prete africano - parte di quella umanità nera, così sessualmente esuberante, dove tanti preti hanno la concubina: non un celibe, ma padre: cento volte più padre dei padri sessuali, con tante pecore - nere - da continuare ad educare e a rettificare.
Per coincidenza, scrivo queste righe nel giorno di Pietro e Paolo, e dell’inizio del millennio paolino. Un prete negro, parato di rosso, ce lo ha ricordato nella parrocchia di Bagnaia: il paramento rosso è il simbolo del sangue versato da quei due nostri padri fondatori, di cui siamo figli.
Pietro il semplice, cuore sincero, non si poteva dire coraggioso: fu sul punto di cercare di scamparsela un’altra volta, dopo quella notte in cui disse tre volte di non conoscere quell’Uomo, e poi pianse amaramente. La chiesetta del «Quo Vadis», sull’Appia, segna il punto in cui gli comparve il Figlio a dargli il coraggio necessario, e tornò indietro. Un padre deve trovare il coraggio.
San Paolo, non è usuale che ce lo si immagini come padre: il grande intellettuale, il polemista, mi fa troppo dimenticare la qualità che di rado possiede l’intellettuale, la carità. Ma Paolo era carità nella battaglia, la carità del padre combattente, le lettere sono continui rimproveri ed esortazioni ai suoi figli, numerosissimi. Lo stesso giorno in cui Pietro fu crocifisso a testa in giù, la spada troncò la testa di Paolo.
Non credo che lui avesse, in quel momento, l’impulso di ritrarsi: aveva corso tanto, aveva dato tutto nella gara. La sfida era superata, si aspettava il palio rosso della vittoria. I nostri due padri.
mercoledì 2 luglio 2008
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